di Roberto Roda
Quando racconto di arte contemporanea, di artisti e delle loro "stramberie", gli interlocutori vorrebbero ascoltare soprattutto di fantasiose quanto trasgressive genialità, perché il mito romantico dell'artista genio e sregolatezza sembra proprio non voler morire, tanto che persino molti artisti d'oggi hanno finito pateticamente per continuare a credervi. Vorrebbero anche, alcuni interlocutori, sentirsi dire delle ricerche che alcuni istituti del Nord Europa stanno conducendo per accertare se a livello cromosomico esistano dei geni che favoriscono la predisposizione alle arti. A chi mi chiede cosa distingue gli artisti dalla gente comune, da chi si occupa quotidianamente di cose più contingenti e prosaiche, rispondo scherzosamente che gli individui votati all'arte possiedono, a differenza degli altri mortali, due cuori. Uno, ipertrofico e visibilissimo, risulta ancorato al presente anche se aspira al futuro. L'altro, ipotrofico e ben nascosto, si alimenta delle linfe del passato.
Ancorché scherzosa, la metafora non è peregrina. C'è una visione a-storica che vorrebbe attribuire all'artista famoso la capacità geniale di precorrere il futuro. In realtà l'artista è sempre figlio del proprio tempo, ma i migliori riescono a cogliere e a rendere evidenti, prima che altri ne prendano coscienza, quanto già è latente o comincia appena a rivelarsi nella società. Per questo l'arte contemporanea, dominata dal melting pot multimediale, è uno strumento privilegiato per comprendere la società globale in cui viviamo.
Ogni artista è chiamato dalle leggi del mercato dell'arte a dare forma visiva al presenta ma, idealmente, sogna che le sue invenzioni abbiano caratteristiche di innovativa originalità e possano, dunque, appartenere al futuro (o quanto meno aspirare ad essere "senza tempo"). Se tuttavia si osserva l'arte contemporanea con attenzione ci si accorge che a fare tendenza non è, oggi, l'anticipazione futuribile bensì il dialogismo intertestuale, non banale citazionismo, si badi, ma estesa volontà di porre il gesto creativo e l'immaginario artistico che lo sostiene a conversare con alter discipline, cercando legami complessi con la storia e gli immaginari del passato.
La cosa è particolarmente evidente in alcuni àmbiti estetici come il design e la moda. Le tendenze più aggiornate stringono l'occhio al passato, definiscono stili "retrò", ma non si tratta di "revival". Piuttosto molta interessante contemporaneità artistica innova cercando ispirazione e dialogo nel tempo che fu.
Un'opera d'arte si fonda su alcuni fondamentali elementi costitutivi: tecnica, stile, contenuti. Un'artista può essere innovativo o addirittura rivoluzionario nello stile, nelle tecniche e conservatore nei contenuti. Un altro, viceversa, può dire cose nuove utilizzando tecniche o stili assolutamente convenzionali: da ciò si può comprendere come l'arte contemporanea si rapporti con quella del passato attraverso forme, dinamiche e concettualità assai complesse e variegate.
La mostra Landscapes è dedicata alle opere di Dany Vescovi e William Marc Zanghi, due fra i più interessanti artisti della nuova pittura figurativa italiana. L'esposizione si presta a leggere alcuni dei rapporti che l'arte contemporanea può instaurare con il passato e lo fa in maniera esemplare, quasi didattica. Sia Vescovi sia Zanghi scelgono come strumento espressivo quello che più ha legami col passato e con la tradizione artistica, la pittura, e creano imprevedibili quanto affascinanti corto circuiti visivi inter-temporali.
Come soggetto per i suoi pennelli Dany Vescovi sceglie i fiori, di cui l'arte del passato ha abusato ampiamente e lungamente contribuendo a conferire al tema un'aura di banale déjà vu. Ma qui è come se l'artista venisse sottilmente posseduto da un trickster, da un folletto dispettoso. I fiori sembrano voler rinunciare alla loro origine pittorica per inseguire una restituzione fotografica e, poi, anche questa sembra dissolversi per l'effetto di una scomposizione digitale, che conferisce all'insieme il fascino indefinibile e accattivante dell'incompiuto. Sarà capitato a tanti di osservare ciò che accade quando si cerca di scaricare pagine e immagini dal web.
Se non si ha la pazienza di aspettare che l'operazione sia completata, che la pagina sia pienamente scaricata, ma si cerca di accedere ai comandi del computer per far scorrere quanto sta ancora pervenendo, sul monitor accanto a parti già decifrabili, osserveremo parti ancora indecifrabili perché costituire da un insieme di linee verticali. E' come se fossimo davanti ad un gigantesco "codice a barre" che progressivamente si dissolve per lasciar ritrovare all'immagine della pagina il suo senso compiuto. Dal sistema di righe prendono progressivamente aggregazione forme intelleggibili: parole e immagini. I fiori di Vescovi collocati in parete ci appaiono come stranianti e pittorici tromp l'oeil di monitor di invisibili computer, che stanno ossessivamente scaricando dalla rete tante immagini di fiori diversi cogliendo l'attivo intermedio, quando la comunicazione è ancora "parziale e informale disturbo visivo". L'operazione metalinguistica che Vescovi propone è di grande interesse e fascino: un effetto visivo "nuovo", perché ascrivibile all'inconscio tecnologico dei nuovi mezzi di comunicazione (e dunque inesistente e inimmaginabile prima dell'avvento di questi) viene trasferito in forma pittorica ripercorrendo una strada che già Henri Fantin-Latour aveva tracciato oltre 140 anni orsono quando, di fronte alla nuova tecnologia di rappresentazione visiva che si stava affermando in quel momento, la fotografia, presa coscienza di uno stilema raffigurativo specifico del nuovo mezzo e che la pittura ancora non poteva conoscere, il mosso fotografico, pensò di travasare il nuovo "effetto" nella tradizione della raffigurazione pittorica, regalandoci quel capolavoro discreto che è L'omaggio a Delacroix. In apparenza si tratta di un convenzionale ritratto di gruppo in realtà è una complessa ed esoterica metafora dei rapporti fra arte e fotografia, fra tradizione artistica e innovazione tecnologica.
Come già avviene nel dipinto di Fantin-Latour, anche nei fiori di Vescovi l'osservatore è chiamato a interrogarsi sui rapporti fra pittura e nuove emergenti tecnologie. Nel visitatore più smaliziato vogliamo invece sollevare un dubbio: non sarà che quelle linee che spezzano le forme dei fiori per creare un'estetica rarefatta in cui trovano elegante, quieta e complementare convivenza il figurativo della natura morta e l'astratto geometrico, vogliano alla fine suggerirci qualcosa di inquietante, e fors'anche apocalittico, magari bisbigliandoci di non prestare indifferenza ad una comunicazione globale che oggi invade ogni naturale realtà, disturbandola e frammentandola, subdolamente?
Assai distanti dalle forme e dai soggetti di Vescovi ci appaiono le opere di Zanghi, dove il dialogo tra presente e passato imbocca altre sorprendenti strade. Il percorso evolutivo di questo artista, a partire dai primi anni del Duemila, è cominciato rileggendo la lezione del realismo americano (si vedano le opere dedicata alla tragedia delle Torri gemelle presentate nel 2002) ed è poi proseguito descrivendo i fuggenti attimi di vita urbana, i luoghi della metropoli, dove la gente che la abita ha subìto una prima invasione "aliena" fatta si esseri trasparenti, quasi invisibili che sembrano provenire graficamente da un remoto passato rupestre. Una seconda invasione aliena, fatta di scimmie anche queste trasparenti e inneggianti all'arte preistorica delle rupi conquista megalopoli (nei dipinti della serie Action/Jungla d'asfalto, 2004), dilaga nelle periferie disastrate e nella campagna, si impossessa delle ville signorili con le grandi e lussuose piscine ormai deserte, silenziose, abbandonate, par di intuire, per la fuga dei proprietari (la serie delle Swimming pool). Gli esiti sono quelli di una surrealtà inquietante dove il quotidiano sposa l'inspiegabile, un po' come avviene i certi dipinti del francese Jean Bastide o dello statunitense Robert Zeller.
Con la serie di dipinti per la mostra Landscapes si apre una nuova fase pittorica, caratterizzata da inquietanti paesaggi umidi, quasi un'evoluzione della tematica acquatica iniziata con le precedenti piscine. Le invadenti scimmiette sono ora scomparse, è riapparsa la gente ad affollare siti acquatici dai colori marcescenti, paludi, foreste pluviali, isolotti lacustri. Se si osservano questi dipinti non isolatamente, avendo coscienza di quelli che li hanno preceduti, viene il fondato sospetto di trovarsi in presenza di una organica saga di cui la mostra Landscapes è l'ultimo, forse non definitivo, capitolo. Allora è come se la gente fuggita dalle piscine di fronte all'invasione "aliena" abbia qui trovato rifugio nel profondo di una natura malata e comunque avviata al disastro. Le figure sono piccole, si accalcano invadenti come in certe fotografie di Olivo Barbieri, ci appaiono favolistiche, sommariamente ed espressionisticamente tratteggiate come in certi dipinti del tedesco Fabian Weinecke. C'è in queste immagini, dipinte a vernice industriale, un malessere angosciante, l'idea catastrofica dei deserti d'acqua dello scrittore James Ballard. Sebbene futuribile anche l'apocalisse di Zanghi sembra trovare il cortocircuito cercando, rileggendo e aggiornando atmosfere del passato. Provi il visitatore a confrontare opere come Caccia al Maribù o Filosofo contemporaneo con certi dipinti dell'inglese vittoriano John Atkinson Grimshaw (1836-1893). Le assonanze, quanto volute o inconsapevoli non sappiamo dire, aprono comunque nuovi inaspettati e non certo banali dialoghi.