APOCALISSE CONTEMPORANEA

di Luigi Cerutti

Nella piccola cittadina – o dovremmo chiamarlo semplicemente punto, groviglio innato, buco di discordia – di Uqbar succedono, spesso, eventi inauditi, metafisici. Sparizioni. Violenze. Uccisioni cruente. Ladrocini e saccheggi sanguinolenti. Non è la morte a spaventare Uqbar, ma la sua irreperibilità. Non se ne trova traccia sulla cartina. Non è facile, una volta superato il suo portale dardeggiante, capirne a fondo le intenzioni. E' una materia in continuo movimento, che genera sconvolgimenti e interazioni tra dimensioni.
Uqbar, nel corso della mia esistenza, l'ho ritrovata tra le pagine di vecchie enciclopedie, in memorie di pirati assatanati, lordi di sangue d'arteria, in minute fiabe del mondo russo, in qualche filastrocca vecchia di secoli. Potrei raccontarvi ogni genere di maldicenza su questo agglomerato urbano, ultraterreno, di amebe e lucertole, di umani che sono sconvolti come formiche, di intestini piliferi che si strozzano con il loro contorcersi. Dirvi dell'uomo con il corno che richiama in vita i bufali. O del comandante degli abissi che vive nel suo peschereccio dominato dalle specie marine più evolute, come il pesce-vampiro o il gambero-strega. O ancora raccontarvi circa le blatte che escono purulente dalla spuma del liquame marino. Ognuno di questi orrori incerti, forse frutto dell'immaginazione, rappresentano uno dei caratteri di quella città demoniaca. Guerra, morte, malattia, carestia. Ad Uqbar il vento punisce gli occhi dei viventi ed ognuno è costretto a camminare con pesanti armature. I figli non nascono più. I rapporti umani sono stati azzerati. Ed ognuno dei suoi abitanti porta in seno la diffidenza. Per i carruggi angusti non si ode più nessuna lingua e la Babele distrutta è tornata in vita per poi scomparire nel nulla del silenzio. Si sono perse le lingue, i passi a ritroso di quella società accanita ammutoliscono gli abitanti mesti. Tutto questo putiferio è narrato nei libri di Medescar. All'interno dei versetti sacri. E lo riportano alcuni bestialacci di poco conto, avvinazzati nelle birrerie dei bassifondi. Ne parlano gli organi di informazione e i pazzi che cercano seguaci. Gli studiosi che non hanno il coraggio di accettare il mistero. Gli arrivisti che danno aria ai denti. Gli assassini e gli inquinatori. I negrieri e le puttane.
Ora, che vi dico questo, mi rendo conto che tacere di Uqbar è più complesso che parlarne. L'ultima volta che uno specchio di sbieco, al fondo del mio salone contornato da librerie, me l'ha portata alla mente, ho compreso che la "bella indemoniata" si stava sgretolando. Le sue mura erano lucide e lise. La pietra delle sue fondamenta come osso osteoporotico. Le sue finestre infrante e le sue chiese ridotte in cocci. Il suo portale sfondato e accessibile a tutti. La sua anima travisata e svenduta. Uqbar non è più. Per questo è scomparsa dalle carte e resiste, forse, in un luogo dell'essere. Ne hanno abusato con i continui viaggi e le carneficine. Con la svendita del suo nome e dei suoi numeri aurighi e sacri. E' andata nelle bocche delle amebe come dei santi e questi non hanno più potuto dispensarla con chiarezza. Quella città, della quale non è più nemmanco gradito né giusto fare il nome, è logora e disgregata. In qualche modo che alcuni comprenderanno, trafugata.
A questo punto – sono molto stanco, allucinato dal riportare alla mente e alla vista quelle scene immonde – devo trovare la forza di mostrarvi un'altra città, molto vicina alle vostre bocche e alle vostre orecchie. Un dove fisico e tangibile. Nella quale il calderone delirante che ha saturato la "bella indemoniata" è tornato sotto altre forme, ritrovando se stesso e innestando il suo seme, quel suo sperma rivelatore, e proliferando senza timori, mostrandosi ai pochi che sono in grado di aprire gli occhi socchiusi e inermi. Questa landa ve la narro nella breve storia di Abril e il Figlio.

"...Gli alberi cingevano il piccolo parco. Era strano come le ancora ossute querce ed i cipressi soffocassero lo stagno con le papere, le panchine e i ciuffi d'erba ai lati delle aiuole in fiore. Il giardino era, in verità, angusto ed infelice e su di lui, sul suo respiro calmo e lento, prevaleva il cemento del mastodontico ospedale. Sedici piani e una superficie immensa di terra coperta, parcheggi attrezzati e macchine veloci sonnolente. La struttura, sorta al di fuori la città, come una madre sfondata nel peso dagli anni, vigilava silente sulle anime di chi, macilento per il lavoro, divorato dalla fame e dagli istinti, dormiva nella pianura al di sotto, dove trovava spazio la culla urbana. Nelle stanze anonime e sterili i corpi giacevano. I respiri gonfiavano vagamente le lenzuola bianche, macchiate, qui e là, dalla cresolina. Le flebo sussurravano con le loro bollicine. Alcune stanze tradivano una televisione accesa od un parente stritolato dal terrore per una perdita vicina. Quell'ospedale avrebbe potuto essere una città, ed in me prendeva la forma di un cimitero, di un luogo di passaggio e raccolta dei cadaveri più freschi, dei prossimi morti. Temevo che il mio nascituro Abril potesse nascere dove la maggior parte degli esseri trovano la morte. Per questi motivi girovagavo spesso per i corridoi, fiutavo la menzogna nei volti degli infermieri e covavo, neanche più segretamente ormai, una riluttanza epidermica a quei letti di lattice crudo.
Erano nove i mesi trascorsi e la luna stava per predire la futura nascita, quando cercai ancora una volta di convincere Meredith a chiamare il miglior ostetrico e permettere ad Abril di vedere la luce nella nostra casa, nella stanza da letto che sarebbe divenuta dimora e covo, utero eterno, sodalizio di vita per la nostra famiglia.
Mia moglie, figlia di un contadino fiero e di una ricca decaduta, molesta e bevitrice, era certa che non ci fossero motivi di temere alcunché. Che la vita fuoriuscita dal suo ventre avrebbe pervaso ogni anima e donato, attraverso uno stillicidio amorevole dell'esistenza, una frazione di esistenza ad ogni ammalato della struttura ospedaliera. Quando si lanciava in farneticazioni di questo genere, un piccolo amplesso del suo pensiero, la osservavo compassionevole. Era poi lei a non comprendere? O forse io il sordo?
Giunto il giorno che i miei amici avevano definito 'grande' facemmo i bagagli per trasferirci in ospedale. Quelle valigie così fornite e capienti, la macchina con il pieno di benzina, il gas di casa chiuso, le tapparelle serrate, erano tutti i pervicaci sintomi di una partenza. Di un viaggio. Quello che Abril stava per intraprendere con noi. Quel pensiero così carico di attesa e di senso del dovere mi scosse e permise che trovassi le energie per guidare fino all'ospedale senza più stressare Meredith. Senza domandarle nulla circa il suo ventre. Senza che i miei occhi tradissero titubanza o addirittura terrore.
Quando ci accomodarono e una delle celle sterili e bianche ci fagocitò iniziarono i miei pensieri tormentati. Sperai che tutto finisse in un istante terreno. Che Meredith perdesse Abril. Che tornassimo amanti nelle notti universitarie. Che ogni cosa declinasse nel suo opposto antitetico, nel suo nulla prima della nascita. Ed infine che il viaggio di noi tre era il viaggio del mondo e che, in quel momento di limbo, nel quale lui non era ancora alla luce e noi avvolti in un'ombra sempiterna, ancora non valorizzati nella nostra unione, il nulla era la condizione di ogni idea, era la partenza e anche l'arrivo, ma non un nulla asettico e insignificante quanto embrionale e mistico, carico ed in esplosione. Da lì il sonno mi prese presto e quando con il giorno gli infermieri ritrovarono l'operosità anche Meredith entrò in quella condizione di attesa che è nota come 'nervosismo prenatale'. Divelse le lenzuola e iniziarono a non bastagli più le mie rassicurazioni. Nelle ore lente e cadenzate le visite del medico erano divenute poche, per lei, ed evasive. Le prescrissero e somministrarono calmanti in piccole dosi, dovetti iniziare a leggerle libri, frammenti di poesie. Mi trattenevo dal parlarle dei lavori di ristrutturazione di casa e dei vestiti del piccolo, delle cure delle nonne e dei passeggini, delle offerte viaggio per famiglie e degli asili nido. La note del secondo giorno pregai nel bagno maleodorante che albeggiasse senza sole. Che qualcuno ci rapisse da quell'attesa. Il terzo giorno arrivò e con lui il quarto ed il quinto. Ed ogni ora trascorsa nella rabbia che diveniva sbigottimento disorientato Meredith allentava l'amorevole nodo attorno al suo grembo e lo lasciava il balia dell'aria pungente e dell'atmosfera. Quello scioglimento, ai miei occhi, assumeva i tratti sadici di un serpente che si divincola dalla roccia sulla quale è avvoltolato. Il serpente del dubbio e, alla fine, della delusione rassegnata.
Al termine della settimana, quando ormai le visite dei medici, divenuti numerosi e blateranti, sconvolti, le dosi di medicinali, le mie letture e preghiere, i suoi piagnistei, si erano fusi in un magma irriconoscibile avvenne, d'improvviso, che il ventre iniziò a contrarsi.
La sala operatoria era attrezzata ed io, intorpidito dall'attesa lunga, mi ritrovai in quella baraonda. Tutto avvenne veloce, tuttavia. Le urla e gli incitamenti. Il fungo insanguinato, la testa di Abril, fuoriuscire lenta nella viscosità del sangue. Le richieste del chirurgo. E quando ormai il piccolo essere emaciato e quasi purulento, il seme della vita, come trafugato da una serra magica, vide la luce infrangersi su tutto il corpo, proprio nel mentre che il dottore, emozionato e impaziente, era sul punto di strepitare dalla gioia e di chiedere fatalmente ad Abril di respirare ed urlare il piccolo sparì.
Rimase penzolante dalla vagina di Meredith quel cordone, il filo di unione della luce all'ombra. E la sala rimase sospesa in un luogo non definito e niente subì mutazione sino al momento nel quale un pianto prolungato e feroce ci invase le orecchie. Tra le gambe divaricate di Meredith e le braccia protese del medico, nella zona vuota sovrastante il pavimento e sottostante il velo sterile e verde, alla mia destra di pochi centimetri, vi era la fonte indiscutibile di quel piangere altalenante ed ininterrotto.
Abril era lì, eppure piangeva avvolto dal nulla, invisibile e intoccabile. Ed il mondo, fatto di tutti noi bambini, smise di respirare ed i polmoni di tutti si accorarono a quelli di mio figlio,quel seme per me incompiuto, in uno svenimento generale.
Tutto sublimò.

[Oggi, chissà quando]
Abril è stata una rivelazione. Quel pianto incontrollabile, invisibile e non localizzabile è il residuale che mi è stato lasciato in eredità. Una sorta di monito della rivelazione che sta nel comprendere che il mistero è lontano e, anche quando ne veniamo a contatto, rimane celato. Nel compiersi di questa apocalisse contemporanea si è aperto in me un luogo del sentire che si rivela, che trafigge, parla, illumina il bosco fitto e dall'odore di muschio forte, infine, mi abbandona senza che possa comprendere.
Cosa è stato davvero del pianto di Abril?
Mi ha detto che la vita è dolorosa? Che la mancanza, in realtà, tiene compagnia? Mi ha rivelato, forse, che nel dolore si è soli? O ancora che ogni nostra azione lacera una materia invisibile?

Abril ero io e lui me ed anche il figlio che non ho avuto, e questo era il senso di tutto. Di ogni certezza che (ci) sfugge."

DMC Firewall is developed by Dean Marshall Consultancy Ltd