di Paola Artoni
Dany Vescovi corteggia la natura con la cura di un antico botanico e l'attenzione di uno scienziato contemporaneo. Un approccio che si esprime con una pittura dal colore acceso di sfumature sensuali controllate da una rigorosa geometria, dove nulla rivela la fatica del dipingere o la matericità della superficie. Non ci si aspetti però di trovare un approccio nello stile delle Nature morte fiamminghe o del Sei-Settecento italiano (tuttavia questi sono stati modelli iniziali della sua ricerca), anche se la scelta tematica e certe soluzioni formali potrebbero essere molto vicine, perché qui non siamo in presenza di allegorie, di vanitas, piuttosto, come ha avuto modo di sottolineare egli stesso nel suo lavoro «questo aspetto simbolico (il rimando al tema della morte - memento mori – e all'effimero – tempus fugit, n.d.r.) è completamente assente. La mia è piuttosto una ricerca che utilizza le immagini della "Natura viva" per avere a disposizione una serie di possibilità: forme, cromie, geometrie». La geometria è per Vescovi di tipo analitico: «Procedo selezionando l'immagine e analizzandola, letteralmente... Nella mia ricerca sono presenti allo stesso tempo elementi razionali ed emotivi. Struttura e colore nascono insieme. Per quanto mi riguarda l'uno non esiste senza l'altro». Ecco che il campo viene immediatamente liberato dall'equivoco intorno alla mimesi: a Vescovi non interessa produrre una sorta di rigorosa catalogazione da erbario, piuttosto i fiori sono un punto di partenza per suggerire nuove creazioni artificiali. Le sue tele sono superfici vellutate che, nel tempo, sono state scandite da tagli verticali (ricchi di sfumature, talvolta mossi da piccole increspature della superficie pittorica).
Già dal 1993, in occasione di Tricicli, Vescovi si era dimostrato attento alla natura, presentando dei polittici dove i protagonisti erano degli ingrandimenti di fiori e insetti. Mentre nel 1996 aveva avuto modo di esporre delle tele, realizzate a partire dal 1995, dove compariva anche il volto umano. «Una specie di iperrealismo metafisico che contiene dentro di sé il proprio osservatore e lo nutre della sua stessa immagine» aveva osservato Beolchi e, a proposito dell'inserimento del tema della figura umana, rifletteva sulla mediazione del "fermo" fotografico per succhiare «un'immagine svuotata di consistenza corporea per rigenerare, in un'apparizione lenta, un volto umano». E in tutto questo si può leggere «il riflesso enigmatico di come la pittura abbia fagocitato dentro sé stessa, con la voracità che è propria della sua specie, l'immagine mediata». Viene per la prima volta in questa sede chiarito quanto la pittura di Vescovi sia distante dalla tradizionale "natura morta", ovvero come la sua pittura tecnicamente raffinata non sia una registrazione imparziale della natura ma come intenda creare una "nuova" natura.
Nel 1999 Cingolani, artista colto e fraterno amico di Guida, Nido e Vescovi, si è soffermato sulla pittura di quest'ultimo con l'occhio attento, da "tecnico del colore": «Sono sedotto dai suoi colori acidi e cangianti. Nei quali esplodono le immagini sfaldandosi e mimetizzandosi. La sua pittura è fluida, tirata, una sottile pellicola organica che continuamente si muove come se fosse organicamente viva». In effetti la resa pittorica di Vescovi, modulata su infinite sfumature, ha in sé una sensualità fortissima che non fa percepire la difficoltà tecnica, lo studio rigoroso dalla quale nasce, è quella scioltezza dell'agire che veniva suggerita, sotto il termine di sprezzatura, agli artisti rinascimentali. E' quella disinvoltura che permette a Vescovi di insinuare lo sguardo nelle cavità del cuore umano (Nel cuore del corpo è il titolo di un olio del 1998) come nella vegetazione degli abissi marini consapevole di avere come obiettivo una pittura che solamente in parte si può definire figurativa. L'astrazione è infatti sempre sulla soglia delle sue tele, si affaccia tra le pieghe della realtà, suscita evocazioni liriche e introspettive.
Nel 2001 nel ciclo nato per la Cittadella tedesca di Spandau (tristemente nota per essere stata luogo di sperimentazione nazista per i gas tossici durante la seconda guerra mondiale) si ritrovavano degli addensamenti che ricordano brodi primordiali, miscele di elementi, magmatici sommovimenti della materia ma anche figure femminili senza volto. Di Marzio leggeva in questo dualismo un riferimento alla morte «come punto di arrivo ma anche punto di partenza insostituibile per la metamorfosi che vede l'artista al centro, appunto, del percorso alchemico». Il dramma storico è rivissuto sulla pelle dell'artista ma si tratta dell'«esperienza interiore dell'autore che, nell'opera, regredisce ad uno stadio primordiale e quasi embrionale per poi rigenerarsi in forme nuove e affrontare la ri-nascita». La natura di Vescovi diventa luogo naturale, ventre materno «Terra Madre al cui interno sono presenti gli embrioni che esprimeranno il procedimento di rinascita. Allo stesso modo, le cellule d'acqua ricreano, per una sorta di incantesimo, quelle stesse immagini di vita che fanno sì che il rosso diventi sangue, il giallo bile, il verde linfa vitale».
Sempre più Vescovi prende le distanze dal soggetto (si tratti di fiori come fondali marini tropicali) privilegiando l'aspetto evocativo del soggetto. Come ha avuto modo di affermare Santese, in tal senso l'utilizzo di bande verticali colorate diventa «elemento di raccordo tra lo spaesamento prodotto dalla pittura e il senso di una geometria lineare, razionale punto di incontro di un occhio che commisura il fluttuare in lontananza di un'indistinta aggregazione di forme che hanno smarrito quasi completamente le sembianze anatomiche».
Nel 2002 la ricerca sul tema dei fiori prosegue e Meneguzzo suggerisce come non si sia in presenza di una pittura semplicemente «indirizzata ai sensi», dove «si rinuncia alla profondità prospettica per una natura così lussureggiante da non lasciare spazio a nessuna profondità prospettica, da saturare completamente il campo visivo, da far sentire le cellule che si moltiplicano, da far vedere la morbidezza fragile e sfacciata della vita che si sviluppa» e che, poiché l'esperienza del pittore è l'esperienza di chi «trascina il discorso verso l'esperienza dei sensi, visto che la vista, per quanto sia il più astratto dei sensi, è pur sempre uno di quei cinque. E' in questa umiltà che il pittore altrettanto spesso ritrova la sua grandezza, nel conoscere i limiti del proprio strumento e nel non fingere che sia qualcos'altro; i sensi sollecitati dalla pittura producono il senso della pittura stessa».
Si accennava, nell'incipit di queste riflessioni, all'approccio fotografico del lavoro di Vescovi (si pensi alle sfocature, ai macro ingrandimenti, ai dettagli in primo piano, ai tagli delle inquadrature). Un approccio che, nel tempo, è proseguito ma che ha subito delle significative evoluzioni: come aveva modo di annotare sempre nel 2001 Sciaccaluga: «Da qualche mese a oggi la sfocatura ha lasciato spazio, almeno in parte, a una costruzione molto più complessa, dove l'incertezza non è più se optare o meno con decisione sulla figura, ma come renderla gigantesca, prepotente, imbarazzante nel dibattuto contemporaneo sul futuro della giovane arte. Le suggestioni subite dall'autore, prima provenienti in prevalenza da uno sguardo fotografico, hanno ceduto il passo a un'ottica cinematografica, pubblicitaria, mediale. L'obiettivo della tela non si muove più avanti e indietro, per individuare il fuoco ottimale, ma in circolo, verso i lati, a 360° e sembra ricevere l'immagine non più dalla realtà che si trova di fronte, ma da un segnale via etere, disturbato, criptato, captato con una scheda clonata illecitamente». E se, come nel caso di questa mostra milanese, si ritrova l'immagine di un busto femminile (reso con colori acidi), «la figura protagonista del dipinto, un nudo di donna spesso velato e celato nella sua sensuale evidenza da un disegno monocromo, o dai toni fortemente acidi è ripresa ai margini del quadro, dove gran spazio ha il fondo. E' contorta, innaturale, in posa forzata».
Proprio il tema delle righe, di questa sorta di "disturbo" di trasmissione, suggerisce a Vittoria Coen la definizione di una sorta di necessità di «rimettere ordine in questo scorrere libero, con nette, ben leggibili bande verticali, come corde di strumenti musicali, mai anonime, ma sempre in delicata sintonia con gli altri elementi del quadro, che attenuano il protagonismo dell'elemento pittorico, di una libertà quasi alla O'Keefe, restituendo puntualmente la valenza del fotogramma», restituendo anche una struttura compositiva. L'impressione dello spettatore è, in effetti, quella di un rimando alle video installazioni, a una sorta di contemplazione di un naturale artificiale, mediato dall'approccio tecnologico. Del resto lo stesso Vescovi ha avuto modo di affermare che «la scelta di utilizzare immagini di nature, da me realizzate in macro o semplicemente recuperate, trovate, rubate in vari contesti specializzati, è la base e il pretesto per lo sviluppo iniziale della mia ricerca. La natura come elemento fondante delle forme, strutture, geometrie, morfologie che l'essere umano ha da sempre preso come esempio per la creazione in molti campi del sapere (...) Oggi si distingue sempre meno ciò che è reale o virtuale, naturale o artificiale. Le mutazioni coincidono in tutti i campi della scienza naturale e informatica. Queste realtà viaggiano in parallelo e sempre più s'intersecano, creando nuove vie di ricerca ma anche nuovi mostri».
Nel 2004 le tele hanno assunto i titoli di sigle, come si trattasse di "altra" natura, ricreata e classificata nel laboratorio dell'artista-scienziato, inverosimile nel colori, difficilmente identificabile nelle forme. Questa "nuova" natura, è stata presentata in occasione della personale Hybris (dove, tra l'altro, Vescovi ha esplorato delle significative affinità elettive con la natura conservata sottovuoto di Paul Renner e i kit per costruire fiori di Carla Matii). Nella monografia che ha accompagnato l'evento, Vescovi si è espresso in merito allo scopo della sua ricerca artistica e alla sua funzione: «la mia è un'opera quasi asettica, per niente "toccata" dalle vicissitudini sociali, ma questo non significa che non abbia uno scopo». Una contemplazione intimista che passa attraverso il senso della meraviglia. Lo suggerisce nella stessa sede Riva che afferma: «la meraviglia è, per Dany Vescovi, identificabile ancora, e nonostante tutto, col mondo naturale (...) passata la sorpresa, la malinconia e finanche il desiderio di ritorno alle origini dettati dalle ultime code di rivoluzione industriale, questa generazione, vissuta sulla coda delle avanguardie ma con più d'un occhio al futuro, non poteva in fondo che tornare a fare quotidianamente i conti con la progressiva abolizione di confini tra mondo naturale e artificiale, tra paesaggio reale e paesaggio digitale, in breve tra il reale e la sua immagine». E il già citato tema delle bande verticali che solcano i dipinti? Per Riva «rimandano indirettamente a un possibile linguaggio da codice binario, o da scansione elettronica, volte a spezzare il soggetto originale del quadro e a duplicarne o a triplicarne l'immagine, offrendo così un effetto di dinamismo della composizione, ma anche un effetto di inevitabile straniamento, di presa di distanza dall'immagine riprodotta da parte dell'osservatore, quasi esso si trovasse di fronte alla vaga struttura – la cui comprensione finale è destinata fatalmente a sfuggirgli – di qualche remoto linguaggio digitale, di cui non è più in grado di riconoscere i codici di accesso né gli strumenti interpretativi».
Il desiderio più profondo dell'artista è che, attraverso questi dipinti, il fruitore possa avere «l'occasione di ritrovare una parte si sé in essa. Vorrei che i miei quadri favorissero la relazione dell'osservatore con sé stesso, con la propria intimità (...) vorrei che favorissero l'introspezione dell'individuo, quella disposizione d'animo affine alla preghiera di cui l'uomo contemporaneo ha sempre più bisogno».