di Mimmo Di Marzio
Esiste un legame intimo che unisce fin dall'antichità, e a differenti livelli culturali, la figura dell'alchimista-fabbro-sciamano a quella dell'«artista-poeta». Nella tradizione alchemica tanto orientale quanto occidentale (ma anche africana), il «Faber», ovvero colui che crea oggetti, interagisce con la materia e la sottomette utilizzando le armi che gli erano fornite, secondo la tradizione epica, dagli Dei celesti.
Le armi dei maestri d'iniziazione, secondo i rituali metallurgici, erano il fulmine e la saetta. Lo sciamano seguiva i dettami di un compito prestabilito, era cioè incaricato dalla divinità di perfezionare la creazione e di educare gli uomini rivelandone i segreti della cultura e della vita. Il concetto di trasformazione della materia, ovvero di metamorfosi, ha naturalmente valore simbolico, come puramente simbolico è il mito-leggenda della trasformazione del "vil metallo" in oro.
L'alchimista, di fatto, è colui che insegue il metallo perfetto e libero da impurità al solo scopo di perfezionare la natura, svelarne i suoi più intimi segreti per liberare l'uomo (e quindi la società) dai propri vincoli interni, accelerando il processo di consapevolezza del proprio essere sulla Terra in relazione con gli altri uomini. In questa chiave vanno evidenziati il ruolo ed il valore di qualsiasi intervento artistico che, lontano da sovrastrutture e da obiettivi puramente estetici, ha di contro lo scopo assolutamente etico di indagare la memoria dell'uomo, di un luogo, di una comunità, ripercorrendone i conflitti (quelli visibili e soprattutto quelli dell'inconscio collettivo), esorcizzandone le paure, e contribuendo a reinventarne l'identità. Il lavoro di Vescovi, nella fattispecie, poggia su un dato drammaticamente e freddamente storico ma, di fatto, carico di contenuti ancestrali legati alla paura dell'in-vasione, della contaminazione, della malattia. Il dato storico è marchiato a fuoco nella memoria della Cittadella di Spandau, piccola roccaforte costruita alle radici di Berlino. Un luogo la cui identità è vincolata ad un'idea di morte che, tra tutte, è forse la più subdola e silenziosa, ovvero quella per avvelenamento.
E' questo uno dei luoghi, infatti, in cui durante il secondo conflitto mondiale i nazisti sperimentavano i gas e le sostanze tossiche da utilizzare in combattimento. I liquami chimici derivanti dai test, e che forse coinvolsero anche molti esseri umani, infettarono la terra, le acque e anche la memoria di uno degli ultimi patrimoni storici di Berlino. Qui la morte è osservata come punto di arrivo ma anche come punto di partenza insostituibile per la metamorfosi che vede l'artista al centro, appunto, del percorso alchemico.
La Metamorfosi attiene infatti contemporaneamente alla morte e alla vita e si sviluppa attraverso la seduzione, l'implicito concepimento della forma, la gestazione, la germinazione e infine la nascita. In questo caso la materia prima, vale a dire il liquido mortale che inquinò questi luoghi, diventa non soltanto situazione primordiale di una sostanza ma esperienza interiore dell'autore che, nell'opera, regredisce ad uno stadio primordiale e quasi embrionale per poi rigenerarsi in forme nuove e affrontare la ri-nascita. L'artista interviene sulle virtù del colore e sulle mille possibilità offerte dal macro-ingrandimento delle forme. Al colore, Vescovi conferisce poteri taumaturgici e chimicamente farmacologici, partendo dall'idea che il veleno, nella sua accezione simbolica e intrinseca, può uccidere ma anche guarire se utilizzato entro soglie adeguate.
E allora il veleno che uccise la vita attorno alla Cittadella diventa nell'opera di Vescovi elisir di immortalità, terra mater e petra genitrix di una nuova esistenza morale dove tutto è nuovamente possibile e tutto può cambiare.
La presenza costante dell'elemento acqua nel suo lavoro ha ragion d'essere non soltanto per finalità ideali e descrittive, ma anche concettuali, laddove l'acqua che per prima trasportò il veleno con la sua corrente è anche colei che maggiormente ha la possibilità di conservare la memoria e le origini della vita.
Il processo di dissoluzione e frammentazione si manifesta nella forma e nei cromatismi differenti, ma anche nella composizione in serie che determina contrasti e annullamenti sincronici. L' indagine pittorica passa, dicevamo, attraverso la materia primordiale e quindi anche attraverso il corpo, quello dell'uomo inteso come territorio ultimo, ovvero come «homo novus». E' come se l'artista, esattamente come il Fabbro-alchimista, si rendesse autore di un processo di "sessualizzazione" della natura e della materia stessa, vegetale e umana. Il corpo della donna simboleggia allora il ventre della Terra Madre al cui interno sono presenti gli embrioni che esprimeranno il procedimento di rinascita. Allo steso modo, le cellule d'acqua ricreano, per una sorta di incantesimo, quelle stesse immagini di vita che fanno sì che il rosso diventi sangue, il giallo bile, il verde linfa vitale. Ecco quindi che il recupero dell'identità collettiva attraverso la relazione corpo-luogo-materia avviene attraverso l'atto più sublime, vale a dire l'opera d'arte. Ancora una volta l'artista agisce da Salvatore della natura e l'aiuta a realizzare il proprio "ideale", cioè il raggiungimento della maturità suprema, fino all'immortalità e alla libertà assoluta. In questo modo l'artista-uomo salva i suoi simili e, per riflesso, anche se stesso.