DANY VESCOVI

di Vittoria Coen

Quali che siano i soggetti sui quali Dany Vescovi ferma la sua attenzione, è sempre immediatamente evidente una nettissima predilezione per il colore. Il colore può essere intenso e definito, dominante in senso assoluto e protagonista senza rivali, ma anche obbediente alle forme, ai materiali, in special modo alle popolazioni viventi, ai vari soggetti, ad ambiti esterni ampi o affollati, spazi pienamente autosufficienti, attivati da una vitalità prepotente. Uno degli aspetti interessanti di quest'ossessione del pieno che, spesso, si rileva in numerose opere, è nell'autonomia con la quale vengono scelti, si vorrebbe dire addirittura selezionati minuziosamente, i dettagli sui quali l'occhio fotografico ha fissato la sua attenzione e l'azione pittorica ha poi collocato l'indicatore speciale, il segnale che significa: ecco, questa è la vita delle cose, questa è la realtà della quale facciamo parte. Su questo la lanterna dell'artista dirige il suo fascio di luce, ne mette a fuoco alcuni aspetti, e, nonostante la puntigliosa attenzione, almeno parzialmente descrittiva, ingigantisce, rimpicciolisce, enfatizza, mette in ombra, a sua scelta, facendo così, un'operazione che è, comunque, tutto sommato, classica di una certa arte. Questo sin da quando, non le stilizzate immagini dei santi a cui l'inespressività conferiva valore simbolico, ma le smorfie dei torturati a morte venivano ritratte dal pittore dei potenti. Michelangelo Merisi detto Caravaggio, aveva, infatti, accesso a questi terribili spettacoli, e traeva dal naturale realismo dell'evento lo spunto per quella trasfigurazione in immortalità, dono tragico che può essere soltanto frutto di un'eccezionale potere artistico di visione. Proprio ciò che distingue il più piatto documentarismo dagli interventi artistici autentici, nella pittura come nella fotografia, è proprio questa capacità di trasfigurazione. Colore, allora, luminosità straripante, che può seguire con la massima attenzione la struttura dell'oggetto, le sue caratteristiche, la sua individualità, quella specie di sottile legame intimo che è, malgrado gli interstizi inevitabili, la marca di chiusura del "qui e ora". Si potrebbe definire così, solo per comodità, questo tipo di analisi pittura fotografica, tenendo presente, però, che in operazioni di questo tipo, il primo atto dell'artista è allontanarsi immediatamente dalla fotografia per privilegiare un insindacabile gusto degli effetti, così naturale, del resto, quando il soggetto non è qualcosa di immoto, ma si offre ai nostri occhi e può provocare in noi disobbedienti allucinazioni. C'è un momento, nel lavoro di Dany Vescovi, in cui appare più forte il desiderio di seguire varie derive di forme, magmatiche agglomerazioni, o anche estenuanti prolungamenti, in cui la sostanza, sempre vitale, sempre biologica in senso decisamente tangibile, fisiologica, palpabile, va scivolando verso un probabile indistinto informe. l colori diventano più discreti, più sfumati; c'è una volontà, si direbbe, di compiere una doppia e apparentemente contraddittoria operazione: ancora e sempre il protagonismo del colore, ancora e sempre l'attenzione alla fisicità, ma nel gusto speciale di indagare che cosa accade negli intrecci dei filamentosi passaggi della materia. Gli effetti ottici che la fotografia evidenzia ne sono poi una speciale occasione di risonanza. Mentre l'artista allenta la tensione del concreto, restringe la riconoscibilità, sfuma, allarga, diluisce, salvo poi a rimettere ordine in questo scorrere libero, con nette, ben leggibili bande verticali, come corde di strumenti musicali, mai anonime, ma sempre in delicata sintonia con gli altri elementi del quadro, che attenuano il protagonismo dell'elemento pittorico, di una libertà quasi alla O'Keefe, restituendoci puntualmente la valenza del fotogramma. Resta sempre, nel lavoro di Vescovi, la meraviglia dell'oggetto consegnato alla memoria, come fu dai tempi del dagherrotipo. Qui, però, fermare le immagini passeggere, fluttuanti, usando il mezzo pittorico senza inibizioni, trasforma la realtà in invenzione, in cui non occorre ricercare l'illusionismo di un esserci per lo spettatore, tipico, piuttosto, delle video installazioni. Non c'è intenzione di andare oltre lo schermo, oltre la pellicola. Le ministorie silenziose raccontate velocemente si muovono in una dialettica sommessa, in cui spazio e corpo, in naturale contesa energica, si confondono in un continuo rincorrersi di effetti. Trovo, in quest'interscambio di elementi, di mezzi, di tecniche, una grande armonia. Non direi, infatti, che mai lo sguardo dell'artista abbia voluto spingersi entro analisi scientifiche: c'è la curiosità del ricercatore, ma non dell'entomologo. Qui non si compongono erbari, non si costruiscono zoo sommersi e giardini botanici. La natura è affidata al mezzo fotografico, le cose del mondo sono viste nella loro varietà, nelle gamme cromatiche, nelle pieghe delle forme, in una sorta di contemplazione, che non idealizza la natura facendone qualche cosa di angelico, ma la raccoglie com'è, poeticamente. Senza che nel progressivo allontanamento dalla forma originaria vada smarrito il necessario punto di riferimento, l'idea base, mentre, cioè, l'occhio si allontana dalla semplice messa a fuoco e può anche divagare in situazioni immaginarie, che poi, del tutto immaginarie non sono, noi riconosciamo la verità scientifica e filosofica nella coesistenza del semplice nel complesso, della complementarietà del dettaglio con la sintesi, e, infine, con quel movimento incessante e fondamentale che è carattere primario dell'universo. L'artista si è, per il momento, allontanato dalla trattazione del corpo umano, specialmente di quello femminile. I busti apparsi come sequenze acide e immortalate sulla tela con quell'esattezza espressiva propria dell'artista, rimangono nella memoria della messa a fuoco di una natura che è punto di partenza per il racconto pittorico. E' proprio nell'alterazione cromatica la risoluzione di una poetica che prende spunto da determinati soggetti, fino alla messa a fuoco di particolari, sezioni, timbri e punti di vista. Le scansioni frequenti che, ad un certo momento dell'evoluzione artistica di Vescovi troviamo, le linee rigorosamente verticali che, per millenaria consuetudine consideriamo espressione euclidea di regola, non hanno l'aria di voler sovrastare o sopraffare in funzioni descrittive, ciò che resta comunque ben visibile dietro di loro. Se il loro compito è conferire ordine e sottolineare, riconfermare la presenza del fotogramma, appare indiscutibile che quest'ordine è in armonia perfetta con l'insieme, e non si tratta di una barriera o di una griglia ideologica. Talvolta, insistendo addirittura sui toni cromatici, o alleggerendoli o rinforzandoli, le linee diventano un elemento costruttivo, a mio avviso di grande importanza. Il fotogramma non è, quindi, in ogni caso, un elemento eterogeneo prestato per l'inclinazione ad un certo tecnicismo fine a se stesso. E' ancora un fondamento, che non impedisce all'artista di muoversi col suo estro pittorico, né interferisce con i suoi diritti. Non è certo materia passiva, perché è nato con i segni determinati su cui Vescovi vorrà insistere caso per caso, ma non è nemmeno un marchio indelebile, né verso un rischio di eventuali tentazioni seriali né nell'appiattimento ad un codice che, anche se esteticamente di alto livello, sarebbe sempre un codice formale.

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