di Emma Gravagnuolo e Maurizio Sciaccaluga
Nella storia del Novecento, alle immagini del primo e primissimo piano, l'arte contemporanea ha spesso affiancato una trama di fondo – fatta di linee, colori, motivi e arabeschi – tesa a sostituire la costruzione della struttura scenica a scapito del paesaggio, degli interni e delle architetture. In campo figurativo, questa trama prende il posto in tutto e per tutto della composizione di stampo rinascimentale, e diventa il supporto su cui appoggiano personaggi e azione. Un esempio per tutti, i grandi quadri di Alighiero Boetti, dagli aerei alle lettere ai numeri, dove, con una comune penna a biro, l'artista ricostruisce – con una serie di piccole linee verticali affiancate – l'effetto di un tessuto a righe, su cui gli elementi appaiono quasi galleggiare, come parti di un ricamo. In campo astratto, il discorso precipita più velocemente, il rapporto tra campiture geometriche o tra stesure materiche diventa il senso stesso e la motivazione del dipinto. Le opere di Bridget Riley, tanto per citare uno tra i nomi più celebri del panorama internazionale, sono vere e proprie trappole per lo sguardo, labirinti optical da cui è impossibile fuggire, e tendono ad esaurire ogni curiosità e passione dello spettatore nella sola visione della tramatura di fondo. Pur non comunissima, la costruzione della scena attraverso una texture, si ritrova numerose volte nella ricerca delle ultime generazioni, sia in campo nazionale che internazionale. Infatti, come accade nei lavori di Takashi Murakami, Gary Hume e Sean Landers, solo per citarne alcuni, il secondo piano, zeppo di motivi, colori ed elementi strutturali, va a scontrarsi con la scena principale e con essa porta a compimento l'edificazione di quadri estremamente vibranti, mossi, dove diventa sempre più difficile distinguere tra gli elementi principali e quelli di contorno.
Davide Nido e Dany Vescovi, pur partendo da campi opposti – astrazione per il primo e nuova figurazione per il secondo -, si ritrovano nel medesimo rapporto con la texture. Con gli anni, nel lavoro di entrambi la trama pensata per tenere insieme l'opera è diventata assoluta e unica protagonista della stessa. Tanto quasi da assorbire in sé ogni ambizione narrativa e descrittiva. Il discorso materico da una parte e quello figurativo dall'altra, hanno conquistato il primissimo piano, e si sono ormai, irrimediabilmente proposti come la questione principe da affrontare per leggere e comprendere la ricerca dei due giovani autori. Se Nido, con i suoi inserti di colle acriliche a caldo, soprapposti e addossati gli uni agli altri, negli ultimi tempi si diverte a creare effetti e suggestioni influenzati dal gusto fashion e psichedelico, tanto che in alcuni suoi quadri le forme ricordano gli scacchi del tartan, Vescovi, invece, parte da un'immagine pseudoscientifica, ripresa con tecnica macro e, tagliando i piani, sfalsandoli e sfocandoli, arriva a dare vita a un gusto decorativo vicino a quello dell'alta moda e della tradizione serica più importante. In un ipotetico giocoso confronto con la storia del costume, le tele di Nido si potrebbero idealmente ricollegare ai tessuti coloratissimi e sgargianti degli anni Sessanta e Settanta, mentre quelle di Vescovi ai broccati che impreziosivano abiti e arredi nel Sei e Settecento.
Pensando a un confronto tra pittura e trama tessile, tra costruzione a olio della forma e tridimensionalità del ricamo, la scelta di Nido e Vescovi appare ovvia, proprio per le affinità elettive che il loro lavoro possiede rispetto ai grandi manufatti serici. Lo stesso fascino che contraddistingue arazzi, tappeti persiani di altissima fattura, stoffe pregiate e sete antiche lo si può individuare all'interno delle trame cromatiche e formali dei lavori dei due giovani artisti milanesi, costantemente inclini a provocare stupore in chi guarda più attraverso l'accostamento dei colori, le sfumature delle tinte, le contrapposizioni tonali, le sovrapposizioni della materia, che per i temi affrontati.
Davide Nido usa sempre lo stesso elemento, la colla a caldo, sparata sulla tela da pistole termiche, per ripensare le conquiste formali della ricerca contemporanea, per sperimentare se siano compatibili o meno con l'utilizzo di una materia diversa, alternativa, industriale, futuribile. La sua non è un'indagine propositiva o indirizzata. Agisce d'istinto, spinto dal desiderio d'esplorazione, dalla voglia di sfidare il limite dello strumento, la colla – mai prima considerata medium espressivo – e quello della pittura. Perché Nido, paradossalmente, è un pittore, e di quelli più conservatori. Usa oli, acrilici o tempere, solo per i fondi, e le sue ossessioni sono quelle di chi dipinge: conquistare spazio, simulare un volume, creare uno spessore, interpretare un colore, condensare un racconto in un'immagine. La sua materia non consente ripensamenti o sfumature, ha una consistenza che non è modificabile, il tempo di lavorazione è ridotto, la trasparenza non è accentuabile. Eppure Nido non si pone limiti e, neanche avesse tra le mani pennelli e olio piuttosto che pistola e colle sintetiche, lavora su trasparenze e velature, interviene sul chiaroscuro, sul contrasto cromatico tra i neri e i grigi di una fittissima puntinatura, su colori smaglianti come tessuti dipinti, dove il colore e la materia, ricordano le sete, dai colori dominanti, dalle geometrie rigorose.
Che siano circoscrivibili nel ciclo sul Pillolo, dove le gocce di colla sovrapposte (dalla più grande alla più piccola) danno al lavoro un corpo sinuoso insieme a una dimensione tattile e sensuale, o che facciano parte sella serie Texgum dove il rapporto con la tramatura delle stoffe è sempre più stretta, i quadri di Nido sono tenuti insieme da un tessuto pittorico rigoroso, pensato nei dettagli, attentamente calibrato nei contrasti e nei movimenti. Tanto più studiato quanto più la costrizione entro cui l'artista agisce e vuole agire è austera e indeformabile.
Dany Vescovi, nelle sue tele ricche di piante, fiori e pesci, fonde insieme la rappresentazione tradizionale della natura morta con le tecniche della macrofotografia scientifica alla National Geographic. Il tutto mediato da un rapporto continuo con l'astrazione di scuola americana, tanto che i suoi pezzi – come il ritratto in primissimo piano di un pesce pappagallo, dall'occhio nero e dalla livrea vivissima – possono anche essere letti come un omaggio a Kenneth Noland e alla sua pittura a cerchi concentrici, o ai lavori astratti anni Sessanta alla Paul Reed, fatti di macchie e campiture sfumate. Per anni, affascinato dai colori della fauna marina dei tropici, Vescovi ha ritratto figure e forme riprendendole da distanza ravvicinatissima, e le ha dipinte a olio leggermente fuori fuoco, in modo da rendere difficile, se non impossibile, il riconoscimento dei soggetti da parte dello spettatore. Ma la figura è sempre presente nella scena, precisa, addirittura ossessionante tanto sono curati i dettagli, nonostante fin dal primo sguardo, sia evidente che l'altro grande protagonista della composizione, altro non è che il colore. Un colore steso in modo tale che riesca a prevaricare la forma, e dare al dipinto un fascino magnetico ritmato dai fondi stesi su tonalità profonde come il blu notte il nero e il viola.
Negli ultimi tempi Vescovi ha introdotto un elemento nuovo, una serie di linee multicolori verticali che spezzano la continuità delle forme e rendono più difficile l'interpretazione dell'immagine. Tra una riga e l'altra i piani scorrono verso l'alto o verso il basso, le silhouettes di piante e fiori – orchidee e gigli, iris e tulipani, anemoni e primule selvatiche – non combaciano più e i contorni si fanno sincopati, spezzati, i soggetti dai toni delicati sono annebbiati dalle cromie squillanti delle righe che li tagliano e li violentano. La relazione tra astratto e figurativo, i toni accesi, la contrapposizione tra linee rette e superfici curve, diventano sempre più imprescindibili, tanto da arrivare a quel gusto grafico particolare, che ricorda quello delle raffinatissime textures di seta.