di Maurizio Sciaccaluga
Al tempo dell'inarrestabile ritorno alla pittura, mentre la nuova figurazione arriva a conseguire risultati di pubblico e critica impensabili solo qualche anno addietro, quando una voglia di racconto – presa a prestito dalla cultura popolare – sembra trionfare nella gran parte delle forme espressive dell'arte targata terzo millennio, Dany Vescovi rappresenta un caso assolutamente originale all'interno del panorama della ricerca più recente. Originale non perché sia profondamente diverso da quanto si incontra di solito in galleria e durante i grandi eventi, ma in quanto voce fuori dal coro all'interno di un movimento spontaneo che, in gruppo, ha rotto gli argini e ha conquistato tutto e tutti. L'artista milanese non è estraneo alla tendenza imperante perché, dipingendo soggetti iconici, ne rispetta gusti e stili, non si discosta dal media più diffuso perché tecnicamente risulta essere uno tra gli artefici più dotati, ma indubbiamente si differenzia con decisione da molte linee portanti del made in Italy figurativo attuale. Innanzi tutto, gli mancano quelle sollecitazioni pubblicitarie, cinematografiche, fumettistiche e glamour che hanno fatto la fortuna di molti suoi colleghi (seppure li stiano intrappolando). Non c'è voglia di stupire o scioccare nelle immagini, e latita l'intenzione di strizzare l'occhiolino alle icone più tipiche della contemporaneità. Inoltre, rispetto a una moltitudine di autori che si sono dedicati alla rivisitazione e alla sovversione del ritratto, del nudo e del paesaggio, lui è uno dei pochissimi (se ce ne sono davvero altri) che abbiano optato, anacronisticamente, per la ridiscussione della natura morta, nel tentativo di ribaltare in leggerezza e vivacità quel segno pesante e logoro che da secoli (dal barocco, forse) caratterizza il genere. Infine, se nei lavori della nuova figurazione è spesso presente l'idea che la tela sia solo il frame bloccato di una vicenda narrativa e ci sono sempre particolari che inducono a pensare si tratti del fotogramma di un film a venire, le opere di Vescovi rinunciano al racconto, non lasciano nulla all'immaginazione, si concludono in se stesse, come catalogazioni scientifiche o flash di un documentario asettico e distaccato. L'artista – paradossalmente, dato che per costruire i suoi pezzi muove da una figura tratta dalla realtà – presenta maggiori affinità con la grande stagione astratto-geometrica americana, con Neo-Geo, tanto per fare un esempio, piuttosto che con le composizioni di figure e sfondi, di primi piani e interni, che contraddistinguono l'italian-style odierno. Al centro degli studi di Vescovi, infatti, ci sono la luce, il colore, le linee, le velature, ma non sono utilizzate per edificare una riproduzione della realtà, per dare vita a un mondo comunque simile all'originale. Sono trattate più riflessivamente, in studi che si succedono uno all'altro come esperimenti, che hanno certamente una scusa e un pretesto di fondo – per Vescovi le forme dei fiori e quelle più elementari della vita animale, per Halley la schematizzazione dello sky-line e dei contatti d'una metropoli – ma che presentano come focus l'analisi delle variazioni della materia. Non importa se si tratti di gigli o di anemoni – come non interessa, nei pezzi di Halley, che quadrati e tratti siano i palazzi di New York e i suoi condotti sotterranei – ciò che conta è come, col muoversi delle forme, con l'incontrarsi delle superfici, cambino la trasparenza e gli spessori, il segno della definizione e la tonalità del fondo. Membro a tutti gli effetti della nuova figurazione, apparente compagno d'avventura di Federico Guida, Leonida De Filippi e Alessandro Bellucco, Vescovi si accompagna idealmente a Philip Taaffe, a Lydia Dona, a Fabian Marcaccio, ai maestri dell'immaginazione astratta. Coi quali divide, da qualche anno, da quando è partita la fase più recente della ricerca, anche la passione per la terza dimensione, per la sperimentazione dei materiali con cui dipingere, per un disegno dalla pelle rugosa e palpabile, per uno spessore fisico (e non solo ideale) dell'olio e dell'immagine. L'artista lombardo è vicino, come quelli sopra nominati, alle ultime frontiere della grafica d'autore più innovativa e matematica, a certe creazioni informatiche al limite tra la riproduzione e la visione, tra la carne e il pixel. In realtà, l'autore degli spaccati su piante e animali è proprio un astrattista, un autore che trae dalle immagini del mondo superfici e volumi rigorosi, sempre più geometrici nel tentativo di arrivare a una codificazione assoluta delle forme e delle variazioni.
Come gli astrattisti dell'ultima generazione, figli della grande estate artistica degli anni cinquanta e della sua applicazione pratica nel design e nella grafica di dieci o vent'anni più tardi, Vescovi ha dalla sua – a differenza dei compagni figurativi, vicinissimi al tempo attuale e alle icone odierne di tivù e pubblicità – anche una riproposizione della psichedelia anni Sessanta-Settanta. Tele e composizioni risentono del recupero, studiato o inconscio, dei motivi e dei toni del periodo più profondo e più glorioso della cultura hippie. I colori, costretti anche a stridere uno accanto all'altro, sono fusi insieme dalle forme naturali, i segni si ripetono con un respiro positivo e arioso, aereo, proprio solo a un pensiero fondamentalmente ottimista. Come al momento storico del flower power, manca la costrizione dei costumi, non si intravvedono le rotaie rigide di destini già segnati e intrappolati. Oltre le righe e i petali, al di là dei grumi e dei pistilli, le tonalità dei pezzi sono il vero simbolo da studiare e osservare, sono la relazione tra passato e futuro, rappresentano il valore pesante dell'opera dell'artista. Se ogni colore, anche quelli scuri, è acceso, brillante e prepotente, le forme si ripetono ossessive, quasi a marchiare un periodo, un'epoca, un modo di essere e di pensare, uno stile di vita. Le tele di Vescovi non sono racconti ma flash, apparizioni istantanee, distorsioni rigorose e frammentate della realtà. Come nella miglior tradizione, e mitizzazione, del viaggio allucinatorio.