I FIORI DI DANY VESCOVI, DOVE IL NATURALE CEDE ALL'ARTIFICIALE

di Renato Barilli

Sarebbe un grave errore prendere i dipinti di Dany Vescovi come l'espressione di un tenace e irrimediabile attaccamento a vecchi temi di natura, quali sono indubbiamente i fiori, celebrati nella lunga stagione dell'Impressionismo e derivati. Senza dubbio nelle sue opere egli non fa che girare attorno a gigli, calle, tulipani, orchidee, margherite, e chi più ne ha più ne metta, ma è assai dubbio che egli sorprenda tutto questo ben di Dio di specie floreale attraverso una visita dal fioraio, di quelli che magari si vantano della freschezza del prodotto esibito, dichiarandolo "appena colto". In realtà Vescovi si inoltra in serre protette, in laboratori artificiosi e asfittici dove i fiori vengono coltivati in modi innaturali, sottoponendoli a temperature sperimentali, a processi di irrigazione, fecondazione, nutrimento che escono dalle buone norme solite, e li fanno crescere oltre ogni limite, acquistare consistenze madreperlacee, o quasi ceramiche, o metalliche, in una trasmigrazione dai regni vegetali a quelli delle sostanze di sintesi create dall'uomo. Ma forse, prima di tutto, nel suo caso conviene mettere in questione il carattere stesso dell'approccio a quei fiori-fantasma, che non è di natura essenzialmente ottica. In proposito ci può servire un bisticcio terminologico che si rende particolarmente evidente in lingue diverse dalla nostra. Infatti l'italiano ha il torto di cancellare, nella radice "opt", la "p", assimilandola a una doppia "t", che sopravvive solo in certe derivazioni dotte, come autopsia, autoptico. Invece, se prendiamo il tedesco, qui la "p" resiste intrepida, determinando l'aggettivo "optisch", che dunque entra in stretto rapporto, con un'unica vocale di scarto, nei confronti di un aggettivo di tutt'altra derivazione, ma ad esso vicino secondo la casualità del nostro alfabeto fonetico: "aptisch", un termine che ci conduce in tutt'altra area, derivante dal greco "aptomai", che vuol dire "sperimento, tocco con le mani, con le dita". Così è in Vescovi, in cui il rapporto "ottico" cede il passo a quello di natura "aptica", ovvero, egli non si limita a guardare, quelle sue corolle magiche, carnose, perfino scandalose, ma le accosta, addirittura armato di un bisturi, come potrebbe fare un sadico sulla pelle delle sue vittime; ne tagliuzza i lobi, i petali, in striscioline sottili, come per prelevarne dei campioni da sottoporre ad analisi. Oppure è in lui un abile artigiano, che decide che quelle immagini sono troppo belle per lasciarle sfiorire nella loro grazia spontanea, meglio farne degli elementi decorativi da riportare sulle lamelle di un sistema di tapparelle, il che è un altro modo per collegarsi agli interventi anatomici condotti col bisturi alla mano. A questo modo, infatti, i fiori si aprono, si distendono nello spazio, secondo l'espediente escogitato da uno dei campioni della Pop Art statunitense, James Rosenquist, che ha deciso pure lui di non fermarsi a una contemplazione inerte e passiva delle icone pubbliche, bensì di trarne un qualche uso per l'arredo domestico.
Infatti, a ben pensarci, l'intero ciclo della Pop Art, dovunque si è esplicato, si è posto proprio il problema di passare dall'ottico all'aptico, chiedendosi come vengano registrate, a livello "popolare", le immagini più diffuse e comuni, col ci si è anche avviati alle meditazioni di specie "concettuale", consistenti prima di tutto, non dimentichiamolo, nel chiedersi quali siano le modalità giuste per rifarsi alla realtà e rappresentarla. Questo forse è il problema essenziale agitato dal nostro Vescovi, visto che, come ho detto in apertura, per lui non si tratta certo di guardare, di ammirare la bellezza floreale con sguardo innocente, disteso, senza problemi. Premono invece su di lui quesiti ben altrimenti intriganti: quali sono le superfici adatte per raccogliere quello splendore dei corpi carnosi dei fiori, se proprio non si vuole addirittura aggredirli, aprirli, andare a vedere come sono fatti dentro? E dunque, si dovrà ragionare attorno alle varie tecniche di riproduzione di stampa, di diffusione delle immagini, visto che è da respingere la pretesa di coglierle "alla prima," in maniera spontanea. Se occorre trarne delle quadricromie, sappiamo bene che bisognerà fornire contestualmente la banda, l'iride, la campionatura dei colori primari su cui si appoggia la riproduzione: e così, quei tasselli, quei prelievi lunghi e stretti, si mutano appunto in bande iridate, in campioni, in assaggi della colorazione che se ne vorrà ricavare, prima di accingersi a un'operazione che comunque è artificiale, volontaristica, volta a inferire un vulnus alla povera, buona, dimessa naturalezza di partenza.
Come si vede, queste riflessioni riguardanti il colore si fanno assai problematiche una volta che non si accetti più l'esistenza di un approccio "naturale", intrinseco alle "cose stesse", ma anzi si ammetta che dipende da noi il decidere sull'assetto cromatico definitivo dei nostri prodotti. Ma subito dopo se ne aprono altre non meno acute, volte a stabilire su quali superfici stamperemo le nostre immagini, per avviarle a una riproduzione obbligatoria. Ecco allora che Vescovi assegna alla superficie dei suoi dipinti vari statuti, anche qui accarezzando abbondantemente la dimensione "aptica", infatti solo il vecchio impressionismo poteva pensare che bastasse la nuda e povera tela, o il foglio intonso, a ospitare le repliche fedeli dalla natura, oggi noi sappiamo che le immagini possono essere affidate a supporti variabili; al punto che, come si è detto sopra, il nostro Vescovi non si esime neppure dal farne delle "veneziane", delle tapparelle apribili. Ma anche a voler rispettare una bidimensionalità residua, si potrà preparare la superficie con una sorta di pigmento denso e screpolato, proprio per dare realtà all'immagine, per sottrarla a un limpido riporto ottico. Oppure, quei prelievi, quei cambi di velocità, quei passaggi da un metro di esperienza a un altro, potranno essere affidati all'intervento di smaltature, lucidature, verniciature, allo scopo di avviare le povere sembianze naturali verso procedimenti di imbalsamazione, di conservazione, di custodia entro blocchi di resine sintetiche. Insomma, nel nostro tempo non c'è più posto per un sano, diretto, semplice realismo o naturalismo, occorre che un simile approccio si connoti subito con una ridda di prefissi, diventi ir-reale, o super-reale, o iper-reale; e poi c'è sempre la possibilità connessa di sollevarlo a cieli di magia: la natura quasi sparisce sotto l'avanzare capzioso dell'artificio.

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